Fira di Sdàz

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La ormai ‘mitica ‘ Fiera di Pontecchio’, chiamata oggi ‘fira di sdaz’ (fiera dei setacci) è regolamentata con ‘Bolla Papale’ dal 1673, ma si suppone che le origini di un momento di aggregazione attorno alle mura di Palazzo Rossi siano addirittura precedenti, quasi coeve alla presenza del palazzo nella vallata di Sasso Marconi.
Il castello-palazzo fu costruito nei primi del ‘400 lungo le rive del Reno (dalla Famiglia Rossi che, da Parma, si insediò nel bolognese) dove già si trovavano un mulino, una segheria e altre botteghe artigiane che sfruttavano la forza motrice dell’acqua. Il luogo era quindi già allora un importante centro di servizio al mondo agricolo e un punto importante di supporto alle lavorazioni artigianali indispensabili all’epoca. Che in un giorno o più dell’anno quella fosse la ‘piazza’ dove gli agricoltori mettevano in mostra ciò che volevano vendere al termine del ciclo agrario e dove i mercanti si recavano per i loro acquisti, non solo è possibile, ma è difficile che fosse altrimenti. Palazzo Rossi è inoltre la più importante presenza della ‘nuova nobiltà imprenditoriale’ succeduta ai feudatari Conti di Panico nella bassa valle del Reno, dall’arrivo del comune libero di Bologna. Con la prima sconfitta dei Conti di Panico alle porte dell’attuale Marzabotto inflitta dalle milizie bolognesi nel 1306, Bologna comprime a suo favore i Conti, signori della montagna, nella parte più alta della collina. La definitiva sconfitta dei bellicosi conti avvenne nel 1363 quando Bologna costringe le forze dei Panico, asserragliate nel castello di Battedizzo per un’ultima e disperata resistenza contro la ‘storia’, ad arrendersi. Ai Signori della Montagna, cui fu concesso di uscire dal castello con gli onori delle armi, non rimase che immigrare parte in città e parte in Svizzera e uscire definitivamente dalla storia. Con la cacciata dei Panico si apre per la montagna bolognese una nuova era di pace e prosperità. L’area del palazzo De’ Rossi acquista subito il ruolo di punto strategico per il crocevia di commerci tra la città di Bologna e i borghi della Valle del Reno, soprattutto per la compravendita del bestiame che alle origini della fiera era il vero e proprio punto forte dell’appuntamento. Merita ricordare che fino ad allora la montagna era organizzata in comunità numericamente poco consistenti che facevano capo a un castello e a un centro parrocchiale spesso esistenti sulla stessa piazza. Il commercio era pressoché nullo poiché ogni centro aziendale agricolo era capace di produrre tutto il necessario per la sopravvivenza dei suoi membri e per il mantenimento del signore e dei suoi dipendenti. Con l’affermarsi dei ‘comuni liberi’ queste comunità convogliarono in una realtà più ampia che era quella ‘provinciale’, il commercio si affermò quale elemento di migliore organizzazione civile ed economica e di stimolo alla produzione. Si consolidò la nobiltà bolognese che riorganizzò la produzione agricola in ampie aziende che facevano capo a un ricco centro che quasi sempre era la loro residenza di fuori le mura. Le esigenze del commercio di una produzione che superava spesso il fabbisogno impose il ripristino della viabilità andata persa con il Medio Evo e nacque la gabella o il dazio che era sostanzialmente ciò che i signori dei Comuni dell’epoca chiedevano ai commercianti che transitavano con le loro merci sui loro possedimenti per aver mantenuto loro efficiente la strada. I Comuni avrebbero poi dovuto tutelare i commercianti dalla presenza di ladri e briganti. Ma questo non sempre avveniva. Si parla anche di ‘signori’ che dopo aver riscosso la gabella essi stessi assalivano i commercianti per spogliarli di tutto. Quando la ‘fira di sdaz’ si è affermata in tutta la sua importanza strategica e quantitativa è divenuta anche l’occasione di affiancarsi ad eventi di carattere sociale e culturale per le comunità rurali dell’Appennino che durante la fiera avevano modo di “evadere” un momento dal serrato ritmo della vita nei campi.
La musica, i cantastorie, i ciarlatani e gli imbonitori erano una parte integrante del programma, insieme alle occasioni per incontrare nuovi amici, contrarre matrimonio, scambiarsi consigli su cosa e come coltivare, acquistare gli strumenti e gli attrezzi necessari, o stipulare accordi tra famiglie. Oggi lo chiameremmo ‘un info point’. La fiera ha comunque non meno di tre secoli di appuntamenti annuali, sempre puntuali: l’8 settembre di ogni anno (fatta esclusione per il 1944, durante la Seconda Guerra Mondiale). Altro piccolo incidente di percorso avvenne nel 1885 quando per la morte in quell’anno in data prossima all’8 settembre della ‘nobildonna signora contessa Ersilia Rossi Marsili’, la fiera si tenne nella vicina località “La Stella” sulla Porrettana, in data successiva a quella tradizionale. Le cronache dell’epoca raccontano che fu un vero insuccesso a dimostrazione di quanto la data e il luogo fossero ormai elementi inderogabili.
Originariamente l’appuntamento era denominato ‘Fiera di Pontecchio’ o ‘Fira di Bigonz’ poiché l’8 settembre riportava al periodo della maturazione delle uve e della imminente produzione del vino che nella vicina ‘Moglio’ aveva un sito di riconosciuta ottima produzione. Negli ultimi 50 anni è divenuta nella conoscenza generale ‘La fira di Sdaz’. Giuseppe dall’Olio, nel suo opuscolo del circolo filatelico ‘Fiere e mercati a Sasso’, ipotizza che il cambiamento del nome sia dovuto ad una sorta di affinità con la ripristinata Fiera di San Lazzaro, che è la vera Fira di sdaz, sia perché una fiera secolare la si definisce meglio con un termine dialettale.
Enzo Chiarullo, dell’ufficio stampa di Sasso Marconi, nella sua presentazione della attuale fiera scrive: “Il filo conduttore che sottende, anno dopo anno, l’organizzazione della Fiera di Pontecchio è improntato alla tradizione rurale e alla conferma del primato in longevità di questo importante appuntamento nella provincia di Bologna.
  • La scelta della location (il borgo di Palazzo de Rossi, lungo le mura antiche),
  • la scelta degli allestimenti (in armonia con le strutture architettoniche storiche),
  • la scelta della composizione merceologica degli espositori (che privilegia le lavorazioni artigianali locali, la tutela del prodotto tipico e della biodiversità),
  • le rievocazioni storiche e in costume (antichi mestieri, gli sbandieratori, i musicanti ecc.),
  • le dimostrazioni delle lavorazioni artigianali,
  • le macchine agricole (con dimostrazione di tutto il ciclo dalla mietitura del grano agli assaggi di pane cotto al forno),
sono solo alcuni degli elementi che si prefiggono di conservare la memoria e tramandare il forte senso di identità della comunità dell’Appennino bolognese, ma la sfida dell’Associazione Fiera, organizzatrice dell’evento, è anche quella di mettere a confronto la tradizione con l’attualità, e gli arnesi antichi con l’innovazione tecnologica in tema di agricoltura, tutela del paesaggio e del territorio, la storia locale e la celebrazione di Guglielmo Marconi inventore della radiocomunicazione proprio su queste colline. Trattandosi di un evento molto partecipato la Fira di Sdàz è anche l’occasione per consolidare il senso di comunità, dando spazio all’associazionismo locale (in tema di cultura, sport, assistenza sociale), al volontariato e a tutte le attività cooperative e senza scopo di lucro che rendono “ricco” il tessuto sociale dell’Appennino.
Sono state realizzate negli ultimi 15 anni mostre storiche, momenti di convegno e di approfondimento su temi locali, raccolte di fotografie e immagini d’epoca, laboratori e dimostrazioni varie per fare in modo che le migliaia di visitatori di ogni edizione possano meglio conoscere e comprendere il background culturale della gente d’Appennino, e affinché i cittadini che vivono da queste parti possano sentirsi parte di una comunità coesa e forte di una tradizione antica e condivisa”.
Condivido ciò che Chiarullo scrive soprattutto perché l’adeguamento della fiera alle attese degli attuali visitatori assicura ancora una lunga vita alla Fira di Bogonz’ o ‘sdaz’ che dir si voglia.